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Vita di coppia: quando l’amore può far male

COPPIA CHE DISCUTE

NDAB Creativity|Shutterstock

BenEssere - pubblicato il 05/08/22

La paura di rimanere soli ci fa cadere in una vera e propria dipendenza affettiva. Ecco come riconoscere i sintomi.

Di Agnese Pellegrini, in collaborazione con Michela Pensavalli, psicologa e psicoterapeuta

Nell’epoca dei like, con contatti brevi e poco intensi – le connessioni, appunto – anche le amicizie si trasformano. E l’avere centinaia di amici – o follower – spesso si traduce soltanto in una immensa solitudine. A risentirne sono un po’ tutte le relazioni affettive: aumentano le paure, si creano cortocircuiti comunicativi… insomma, rischiamo di diventare davvero schiavi d’amore. Una realtà che, purtroppo, non di rado sfocia in vera e propria aggressività.

Di che cosa si tratta

«All’origine del problema della violenza, spesso c’è una vera e propria dipendenza», spiega Michela Pensavalli, psicologa e psicoterapeuta, coordinatrice e responsabile delle attività presso la Comunità terapeutica per la cura delle dipendenze comportamentali “Sisifo”, che insieme a due colleghi – Tonino Cantelmi ed Emiliano Lambiase – ha scritto un libro sull’argomento.

«Molte relazioni», aggiunge, «si reggono sul ritorno dell’immagine di noi stessi che abbiamo dall’altro, e naufragano di fronte a delusioni di vario genere: funzionano finché l’altro ci vede e ci fa sentire belli, unici, amati e stimati. Mentre lo scontro con i difetti, le imperfezioni proprie e altrui, diventa insopportabile (a volte letale), produce un effetto di disillusione sa reciproca e corruzione dell’immagine personale».

A volte, ci si avvicina a una persona per il bisogno di essere apprezzati; o, al contrario, per la paura di rimanere soli. Esigenze, queste, che poco hanno a che fare con l’amore, che invece richiede di accettare l’altro così com’è, e non per ciò che può rappresentare per noi. Sottolinea la dottoressa Pensavalli:

«Nella maggior parte delle relazioni sentimentali, si nascondono reiterati tentativi di compensazione dei traumi, vuoti, disagi affettivi sperimentati nella prima infanzia».

Ed è su questi che occorre lavorare per trovare una soluzione.

Quando il rapporto è malsano

Attraverso moderne tecniche e strumentazioni, i ricercatori hanno rilevato le aree di attivazione cerebrale e le reazioni chimiche che si innescano sia nella fase di innamoramento, sia nella strutturazione delle relazioni affettive, individuando addirittura analogie con l’assunzione di sostanze psicoattive.

Non è, quindi, un eufemismo parlare di “dipendenze affettive”: i circuiti che si attivano sono gli stessi delle altre forme di addiction (da sostanze, cibo, comportamenti, gioco). «Questo avvalora la tesi che amore e dipendenza appartengano a uno stesso dominio della mente», rimarcano gli autori del libro.

«Le relazioni sentimentali», chiarisce Michela Pensavalli, «agiscono sull’umore e sul comportamento come l’uso di farmaci psicoattivi, di droghe leggere e pesanti: hanno il potere
di eccitare oppure di sedare. Pertanto, se ne può abusare fino al punto di diventarne dipendenti».

Questo avviene quando si incontrano persone che portano sulle spalle fragilità individuali irrisolte e di immaturità: in questi casi, la storia d’amore rischia di essere “pericolosa”.
Un dato di fatto, comunque, è che in grande misura tutto ciò dipende dalla nostra infanzia: se siamo stati amati dai genitori in maniera corretta, allora saremo capaci di relazioni sane e responsabili.

Altrimenti, non è raro che l’adulto sviluppi una dipendenza affettiva nei confronti del partner.

Spesso, perché ha bisogno di essere considerato e di ricevere protezione o approvazione: la paura di essere rifiutati è così grande che si cerca di «mantenere la relazione a tutti i costi, anche se l’altro non è d’accordo e se il rapporto si presenta chiaramente disfunzionale, insano o pericoloso (con comportamenti disordinati e violenti)». Gli “strumenti” sono conosciuti:
sottomissione (fiisica e psicologica), isolamento, umiliazione, svalutazione, fiino a minacce e violenza.

I magnifici quattro

Esistono quattro modalità di dipendenza, ognuna corrisponde a una “tipologia” umana.

I trasformisti.

Sono cresciuti in famiglie perfette, la cui priorità è apparire impeccabili agli occhi degli altri. Cercano l’approvazione, allontanano chi li critica. Pur di tenere vicina la persona da cui dipendono, negano le emozioni negative. Da qui nasce l’esigenza di adeguarsi e trasformarsi per compiacere il partner.

I latin lover.

Hanno spesso genitori iperprotettivi, dipendono dagli altri perché cercano sostegno ma spesso non si lasciano coinvolgere emotivamente. Si circondano di relazioni parallele, sono gelosi ma non vogliono essere controllati. Fuggono, ma poi ritornano sempre perché non sanno porre fine a un rapporto.

Gli abbandonici.

Cresciuti, per vari motivi, abbandonati a sé stessi, pur di ricevere affetto e attenzione dal partner si fanno carico dei problemi altrui. Sono compulsivamente accudenti e autosufficienti. Pur desiderando un amore che in qualche modo li ripaghi, non sentono di meritarlo se non a prezzo di grande sforzo e non di rado sottomissione (sopportano abusi
e maltrattamenti).

Gli ossessivi.

Con alle spalle genitori rigidi, esigenti e anaffettivi, cercano partner affidabili e prevedibili. Schiavi delle sicurezze, spesso sono manipolatori. Gelosia e controllo possono raggiungere livelli altissimi. Sono quindi dipendenti da una relazione che dia loro stabilità.

Una via d’uscita

«La via di uscita dalla prigionia delle dipendenze si raggiunge attraverso un percorso terapeutico che incrementa i gradi di libertà personale», evidenzia Pensavalli. Che, nello
specifico, sono consapevolezza, accettazione e cambiamento. Quindi, prima di tutto, occorre ammettere di avere un problema e saperlo identificare (la dipendenza affettiva, appunto, che sia da un partner o da famigliari), riconoscendone i meccanismi.

Bisogna saper esistere, anche senza un “altro” che ci serva da specchio o da compensazione; entrare poi in contatto con le proprie emozioni, sapendo distinguere le paure dai desideri, cercando anche di comprendere quali vicende del nostro passato hanno portato un comportamento disfunzionale.
Il secondo grado di libertà è l’accettazione.
Significa riappacificarsi con la propria storia, con i propri limiti e difetti
, avendo il coraggio di osservare le esperienze negative vissute, senza condannarle, ma neppure negarle.

Dobbiamo imparare a essere compassionevoli con noi stessi, perché soltanto accogliendo il dolore possiamo lasciarlo andare.
Infine, si deve passare all’azione: avviare pensieri e comportamenti nuovi, facendo valere i propri diritti e rispettando quelli degli altri. Forse, non sarà un percorso lineare e veloce; occorrerà molta determinazione.

Tuttavia, soltanto così si costruiscono relazioni sane. Chiosa Pensavalli:
«A questo punto diventa possibile scegliere che tipo di persona vogliamo essere e che tipo di relazioni desideriamo coltivare (oppure recidere!)».

ARTICOLO ORIGINALE TRATTO DA BENESSERE DI FEBBRAIO 2022 QUI IL LINK PER ABBONARSI ALLA RIVISTA BENESSERE

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