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È vivo più che mai il ricordo dei monaci uccisi a Tibhirine

Vatican Insider - pubblicato il 31/10/16

Una breve visita in Marocco, suo paese natale, per l’arcivescovo di Lione Philippe Barbarin, alla vigilia dell’Assemblea plenaria della Conferenza episcopale di Francia che si terrà a Lourdes dal 4 al 9 novembre. 

Il cardinale – nato a Rabat nel 1950 – celebrerà la Festa di Ognissanti insieme all’unico sopravvissuto dei monaci di Tibhirine, rapiti e assassinati nel 1996 e, alla vigilia della partenza per il Nordafrica, ha invitato i fedeli della sua diocesi a pregare per tutti coloro che soffrono a causa della loro fede, in Oriente e in Occidente, per l’intercessione dei martiri di ieri e di oggi, con un’attenzione particolare ai molti martiri, sacerdoti o religiosi in Algeria. Sono ben 19 i religiosi uccisi in Algeria tra il 1994 e il 1996 (il 1° agosto ‘96 era stato ucciso anche il vescovo di Orano, il domenicano Pierre Claverie), per i quali è in corso la causa di beatificazione che ha per postulatore il monaco trappista francese Thomas Georgeon. 

Frère Jean-Pierre Schumacher ultimo superstite, scampato fortunosamente nella notte fra il 26 e il 27 marzo 1996 al rapimento da parte di un commando del Gia (Gruppo Islamico Armato), vive ora nel monastero vicino a Midelt, in Marocco, in una piccola comunità intitolata anch’essa a «Maria Nôtre-Dame». All’anziano frate (ultranovantenne) era toccato il triste compito del riconoscimento dei poveri resti dei 7 confratelli – decapitati e ritrovati dopo 56 giorni dal rapimento – che riposano ora nel piccolo cimitero della trappa, il monastero di «Nôtre-Dame de l’Atlas», fondato nel 1938 a 90 km a sud di Algeri, che i cistercensi hanno deciso di abbandonare a seguito del dramma. Per qualche tempo era rimasto un unico frate a custodia di convento e cimitero, frère Robert Fouquez, poi nel 2000 è stata la volta di padre Jean-Marie Lassausse, incaricato dall’arcivescovo di Algeri – la cui diocesi ne ha acquisito la proprietà – di prendersi cura del monastero. Quasi una seconda vita per Tibhirine (che nella lingua locale significa «giardino») anche per merito di un’Associazione, «Amici di Tibhirine», che ha lo scopo di continuare l’azione umanitaria dei monaci nei confronti della popolazione del villaggio: cooperazione con la scuola di Tibhirine (materiale didattico, mensa), acquisto del bestiame, aiuto per la casa, lavoro artigianale (insieme ad una suora della diocesi), aiuto per il matrimonio. Anche la foresteria è stata restaurata e comincia a essere utilizzata per accogliere dei gruppi per qualche giorno di ritiro e preghiera. 

Più sicura però nel frattempo la sistemazione dei cistercensi nella piccola comunità in Marocco dove vive frère Schumacher, che ha confessato di invocare quotidianamente i suoi confratelli martiri – Christian, Luc, Paul, Celestin, Bruno, Michel, Christophe – che per lui sono già santi.  

La visita di monsignor Barbarin rappresenta solo l’ultimo di una serie di eventi che hanno legato la diocesi di Lione a questo 20° anniversario della tragica morte dei monaci presso il monastero sull’Atlas. 

Originario della città francese era anche uno dei monaci, Luc Dochier medico: «È attraverso la povertà, il fallimento e la morte che andiamo verso Dio», scriveva da Tibhirine, al suo compagno di studi e amico di Lione, il Paul Grenot, nell’aprile del 1994. 

Nella primavera scorsa il cardinale, insieme a François Cheng dell’Académie française e a Marc Trévidic, magistrato del nucleo antiterrorismo, aveva pubblicato un testo dal titolo «Tibhirine. L’Héritage» (ed. Bayard) curato dal giornalista Christophe Henning (autore di articoli e libri sulla vicenda dei monaci). 

Nella prefazione, a firma di Papa Francesco, si legge: «Nella loro carne, hanno vinto l’odio nel giorno della grande prova. Ma è con l’intera loro vita che sono testimoni (martiri) dell’amore. E non senza difficoltà: “Abbiamo donato il nostro cuore ’all’ingrosso’ a Dio, e già ci costa molto che ce lo prenda al dettaglio”, affermava padre Christian de Chergé, priore della piccola comunità. Ciò non riguarda solo i monaci e le monache: tutti noi siamo chiamati a dare la nostra vita nel dettaglio delle nostre giornate, in famiglia, al lavoro, nella società, al servizio della “casa comune” e del bene di tutti».  

Nelle intenzioni del pontefice l’anniversario della tragedia sarebbe stata l’occasione per compiere un ulteriore passo nel cammino ecumenico e interreligioso: «A Tibhirine si viveva il dialogo della vita con i musulmani; noi, cristiani, vogliamo andare incontro all’altro, chiunque egli sia, per allacciare quell’amicizia spirituale e quel dialogo fraterno che potranno vincere la violenza».  

Ed è quanto il cardinale Barbarin ha promosso nel corso di questi mesi tra Lione e il Nordafrica, come all’interno stesso della diocesi francese con numerosi incontri con la comunità islamica. In più, proprio durante questa visita in Marocco, è prevista anche una sosta presso la Casa della Sapienza a Fez, luogo di incontro e di dialogo interreligioso. 

Il 20° anniversario dell’assassinio dei monaci ha registrato nel corso di quest’anno numerosi eventi un po’ in tutta Europa. L’ultimo in ordine di tempo si è appena concluso a Friburgo, in Svizzera: una settimana interdisciplinare dedicata alla vicenda presso il dipartimento di teologia della locale Università «Tibhirine, vent’anni dopo».  

«Mio zio Christian stava cercando di vedere l’altro con gli occhi di Dio», ha dichiarato il nipote del priore de Chergé intervenuto il 24 ottobre, insieme ad alcuni familiari dei monaci uccisi alla serata d’apertura, che ha visto anche la partecipazione di monsignor Henri Teissier, arcivescovo emerito di Algeri che ha conosciuto personalmente i trappisti dell’Atlas. 

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